Partecipazione: questa (poco) conosciuta

Sono tempi, questi – dopo anni di silenzio se non di aperta ostilità sia da parte sindacale che da parte datoriale – in cui va di moda parlare di partecipazione dei lavoratori. Molti ne parlano, appunto, ma ben pochi possono dire di conoscerla e ancora meno sono quelli che possono dire di averla praticata e applicata.

La prima cosa da dire sulla partecipazione al lavoro è anche la più scomoda, e cioè che a molti lavoratori non piace partecipare, non sono interessati, non credono sia giusto, non vogliono essere coinvolti. È una scelta che può certo essere riconsiderata, ma per farlo occorre sfatare pregiudizi estremamente radicati, quali la convinzione che il lavoro sia una condanna da scontare, che l’impegno debba essere minimo e che non vi siano modi per uscirne se non smettere di lavorare (andando in pensione o vincendo alla lotteria …).

Altri vedono la partecipazione come qualcosa di strumentale ad un miglioramento economico, ovvero legata esclusivamente ad aumenti di stipendio o di inquadramento, a premi una tantum etc.. Sono lavoratori che non sono quindi disposti ad essere coinvolti in processi partecipativi se prima non sono ben chiare le condizioni dello scambio, del dare e dell’avere. E dato che non è facile misurare nel breve termine e in modo oggettivo i risultati derivanti da pratiche di partecipazione, accettano soluzioni legate esclusivamente a fattori agevolmente misurabili e quantificabili, ovvero proprio quei fattori che normalmente risultano meno incisivi nel migliorare la performance aziendale. Ne sono un esempio i classici interventi per il miglioramento dei tempi dì attraversamento dei prodotti all’interno della catena logistica, un fattore certo importante ma raramente determinante per un salto di qualità gestionale e personale. È una posizione che nasce anche da una radicata convinzione di antitesi fra interessi dell’impresa ed interessi dei lavoratori, i quali non possono e non devono in alcun modo regalare nulla ad una controparte che si appropria del plusvalore da essi prodotto.

Vi sono infine lavoratori tendenzialmente favorevoli alla partecipazione. Molti di loro tuttavia non hanno idea delle modalità, implicazioni, limiti e potenzialità della partecipazione. Ed è quindi su questi temi che occorre fare chiarezza, specie in quei contesti, come quelli delle imprese cooperative, dove la partecipazione non solo dovrebbe essere qualcosa di naturale e spontaneo, ma dovrebbe pure costituire un elemento vincente nella competizione sul mercato ed un fattore decisivo nella determinazione del benessere del lavoratore.

Fortunatamente nelle cooperative non si parte da zero. Occorre considerare i non pochi – ma mai studiati – esempi di partecipazione realizzati in questi anni all’interno delle imprese cooperative, di cui ho già scritto tempo fa (ad esempio in La morte della partecipazione in cooperativa e La partecipazione in cooperativa), da cui si evince chiaramente che nelle cooperative di lavoro la partecipazione è un processo che non nasce in modo spontaneo, ma richiede di essere programmata, gestita e controllata attraverso strumenti di sviluppo organizzativo. Solo quando si capirà – come dato culturale diffuso – che la partecipazione è un modo diverso di lavorare che fa parte del compito di ciascuno, allora potremo parlare di partecipazione in cooperativa come di presenza intelligente sul lavoro che garantisce interazione sociale e flessibilità.


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