Tutti casa e lavoro

L’emergenza sanitaria ha costretto milioni di persone a lavorare da casa. Si è parlato impropriamente di “smartworking”, quando in realtà si dovrebbe parlare di “lavorare standosene ognuno a casa propria”.

Cosa è successo a queste persone? Tutte hanno dovuto far fronte a piccole o grandi inadeguatezze tecniche e logistiche: computer e dispositivi, connessioni telefoniche, stampanti e materiali da ufficio non erano disponibili per tutti, per non parlare degli spazi casalinghi in cui poter lavorare. Molte di queste persone hanno lavorato in modo ridotto, in quanto impossibilitate ad collegarsi con sistemi e archivi aziendali non attrezzati per il lavoro a distanza. Più o meno tutte sono state sommerse da troppe e-mail e messaggi, spesso confusi, difficili da archiviare e recuperare. Continua è stata la necessità di telefonate e videoconferenze per allinearsi con colleghi, clienti, fornitori e interlocutori vari. Difficoltoso è stato trovare informazioni aggiornate e complete, così come recuperare documenti. Quasi impossibile poi sapere in tempi rapidi cosa dicevano e facevano i colleghi, i capi, i subordinati.

Così come l’ascensore rappresentò a suo tempo la tecnologia abilitante per la costruzione di case a più piani (i grattacieli), allo stesso modo la tecnologia informatica e digitale costituisce l’armamentario necessario per il lavoro da casa (e per tutto il lavoro a distanza).

Si tratta di un armamentario che risulta spesso di difficile comprensione e adozione per coloro che non fanno un uso abituale di queste tecnologie (i c.d. “tardivi digitali”). Molte persone oggi dicono “lavoro più adesso a casa che in ufficio”, calcolando come lavoro tutto il tempo perso a capire come funziona una connessione, un programma di videoconferenza, o come scaricare un webinar. Il loro carico di lavoro supplementare nasce da due tipi di impreparazione: tecnologica e di metodo. La prima riguarda la mancata dimestichezza con sistemi di connessione, condivisione, archiviazione ed elaborazione dati. La seconda concerne la necessità di imparare le nuove regole della comunicazione a distanza: come parlare, come intervenire, come manifestare accordo, dissenso, condivisione. O come scrivere e gestire correttamente le comunicazioni che passano attraverso email, o sistemi come Whatsapp o Telegram, per non parlare delle video-conferenze.

In altri termini, molti hanno scoperto con fastidio di doversi dotare di nuove competenze, e la loro reazione è spesso di insofferenza nei confronti degli esperti digitali (o presunti tali), che si presentano come i nuovi eroi del nostro tempo, facendo apparire gli altri vecchi e superati. Infastidisce il fatto che sia la tecnologia a definire le regole del gioco e che ai “tardivi digitali” non rimanga che il ruolo di spettatori passivi. Non stupisce che nasca e si diffonda un diffuso atteggiamento tecnofobico, che va dallo scetticismo al rifiuto vero e proprio di ogni cambiamento.

Il passaggio dall’analogico al digitale è un fenomeno che va affrontato soprattutto con gli strumenti dell’antropologia culturale. Due aspetti su tutti: 1) l’esperienza professionale passa in secondo piano rispetto alla competenza tecnologica; 2) le tecnologie digitali fanno cadere le barriere fra vita e lavoro, perché ogni ambiente diviene di lavoro e di vita, e “ovunque sei, sei in ufficio”. Questi due fenomeni sconvolgono identità sedimentate, regole non scritte, consolidati equilibri sociali ed economici.

L’avanzata pervasiva dell’intelligenza artificiale, unita alla disponibilità di strumenti e tecnologie di connessione, è stata paragonata ad una quarta rivoluzione industriale, e denominata “digital transformation”. Si tratta di una rivoluzione che crea nuove professioni, mentre altre vanno in declino e scompaiono. In mezzo vi sono tutti quei professionisti che per poter restare in gioco dovranno ristrutturare le loro competenze. L’esito sarà uno solo: l’intelligenza artificiale non sostituirà il lavoro di tutte le persone, ma solo di quelle che non sapranno usare l’intelligenza artificiale.


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