Tempo fa ho partecipato ad un’assemblea di bilancio di una grande cooperativa di lavoro. Non sono stato in sala, ma nei corridoi, nel cortile, al bar, a parlare con alcuni di loro e ad ascoltare quello che si diceva “dietro le quinte”. Molti erano arrabbiati e delusi. I temi del malcontento erano quelli tipici di chi lavora in un’azienda: i salari fermi da troppo tempo, la sicurezza del posto del lavoro messa in discussione, le pensioni sempre più magre e lontane, gli orari scomodi, le condizioni di lavoro non sempre gradite. Molti soci rimproveravano alla cooperativa il fatto di non riuscire a soddisfare le loro aspettative. Si respirava un’aria pesante, qualcuno parlava di sciopero. Quando feci notare che il tema del giorno era un altro, molti furono sorpresi. Dissi che i soci dovevano discutere sull’esigenza di fare maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, in innovazione tecnologica, in cambiamento organizzativo e responsabilizzazione dei soci e dei dipendenti. Ma per molti questi non erano temi di cui potessero discutere i soci: “sono i consiglieri, il presidente, i dirigenti, che se ne devono occupare, sono pagati per questo”. Come se non fossero loro, i soci, ad essere lì, in assemblea, a scegliere chi avrebbe gestito il futuro della cooperativa e, quindi, dei loro salari, della sicurezza del loro posto del lavoro, delle loro pensioni, delle migliori condizioni del loro lavoro.
Una risposta a “Le rivendicazioni dei soci”
sono circa trenta anni che la cooperazione ha rinunciato a colmare il naturae gap che c’è tra le competenze di un socio/lavoratore e quelle delle dirigenza. Automatico che i soci riconoscano nella delega è l’unico strumento per gestire con competenza l’azienza. Purtroppo la stessa selezione e formazione dei consiglieri non crea CDA in grado di indirizzare la presidenza ma è storicaente questa che designa “consenzienti” alla propria linea ed eclude e relega i dissenzienti. questo circolo virtuoso lo vediamo interotto solo, ma non sempre in aziende in crisi ormai irrimediabile.