Buon senso e audacia in tempi di crisi

Nel marzo 1907 il giornale parigino Le Matin indisse una gara automobilistica con queste parole: “C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?” Fra le prime adesioni, il giornale francese ricevette quella del principe Scipione Borghese.

“[…] Ai primi giorni di aprile il principe, Ettore e l’”Itala” erano pronti a lasciare l’Italia, […], quando gli giunse un telegramma da Parigi la cui lettura gli fece dare un balzo di sorpresa. A Parigi l’obbligo di versare i 2.000 franchi aveva ridotto assai la schiera degli aderenti alla prova. Varie iscrizioni erano dovute solo al legittimo desiderio di vedersi nominati dai giornali. Chiamarsi e lasciarsi chiamare concorrente ad una corsa Pechino-Parigi era sufficiente per una ragionevole réclame: fare di più sarebbe stato eccessivo. I rimanenti, i fedeli, si sentirono scoraggiati. Nelle lunghe discussioni si affacciavano nuove difficoltà, nuovi problemi.

Non v’è che discutere un progetto per finire col trovarlo assurdo; la forza delle discussioni è l’obiezione. L’entusiasmo si rinvigorisce con l’azione, ma si perde parlando. La parola è troppo ragionevole, prevede tutte le contrarietà e gli ostacoli, è pessimista. Se si costringesse ogni eroe a discutere per un minuto l’atto valoroso che si accinge a compiere, non esisterebbe più l’eroismo.

Nelle imprese straordinarie bisogna lasciare al caso la soluzione di molte incognite; vi è sempre una parte di ignoto che bisogna affrontare; occorre gettarsi nell’avventura con una certa dose di irragionevolezza. Questa irragionevolezza si chiama audacia. L’audacia è troppo contraria la buon senso, alla logica, per sopravvivere ad un prolungato esame critico. Ed ecco forse perché a Parigi gli aderenti alla corsa finirono per decidere di non farne più niente, di lasciare il progetto allo stato di progetto rinunciando alla sua esecuzione.

Il telegramma ricevuto dal principe Borghese lo avvertiva della risoluzione presa. La Pechino-Parigi era morta. Egli rispose: “M’imbarco domani a Napoli…”. La sua decisione fece ritornare gli altri sulla loro. (pag. 391-392).

“[…] Borghese ha sempre avuto per sistema d’imporsi delle piccole, facili mète vicine, non considerando mai le difficoltà future. Egli mi diceva, durante le faticose, disperanti giornate di lento e duro cammini: “Tutto ciò che desidero è giungere al villaggio vicino” e sopprimeva nella sua mente il resto. Mettevamo così tutte le nostre forze, tutta la nostra volontà, a superare quel breve passo, come se il villaggio vicino fosse l’ultima mèta.  Il giorno dopo ricominciavamo.

L’immane, portentoso viaggio non è in fondo che una serie sterminata di corti tragitti, ognuno dei quali era proporzionato alle energie nostre e della macchina. Il nostro viaggio è sopra tutto una gigantesca catena di pazienza. Non calcolavamo mai quanta strada ci mancava da fare, ma quanta ne avevamo fatta. (pag. 553).

Tratto da: Luigi Barzini, Avventure in Oriente, Mondadori, 1959

 

 


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